Gli arabi, in seguito al loro arrivo in Sicilia nell’ 827, si insediarono nella parte più bassa di San Piero Patti. Oggi questa zona è denominata
Arabite.
Ai margini del sito erano situate alcune porte che davano l’accesso all’abitato, tra cui
Porta Ceto e la
Porta di Santa Maria, ancora esistente e che divide il campanile dalla chiesa omonima.
La
parte più alta del centro storico, quella situata alle pendici della sommità dove un tempo sorgeva il castello, fu edificata in seguito alla rovina dello stesso, usato per ricavarne pietrame. La trama si presenta integra e nonostante lo scorrere del tempo: un piccolo prezioso esempio di urbanistica araba, un frammento di quella Sicilia musulmana che è una delle più forti cifre distintive della cultura siciliana.
Nei labirintici vicoli si trovano ancora tracce di
antiche pavimentazioni in acciottolato.
L’abitato fatto sorgere opportunamente a mezzogiorno, sempre soleggiato, un tempo aveva ai suoi piedi un ruscellante
corso d’acqua che solcava la stretta valle ubertosa e stava nascosto allo sguardo di eventuali invasori provenienti dalla costa, protetto dal presidio militare sovrastante che si ergeva in cima alla rocca sul cui versante sud il borgo si arrampica.
L’Arabite è un
esempio prezioso di urbanistica araba. Conserva intatta quella concezione spaziale radicalmente opposta a quella della polis ellenica, dell’urbe romana e della città occidentale in genere. Questo nucleo antichissimo urbano in origine era suddiviso in tre settori: in alto il quartiere militare con il castello di guardia; sul versante sud della rocca il quartiere residenziale con il suo disegno concentrico attraversato da una strada sinuosa che un tempo univa i due ingressi alla città; un terzo ambito ad est verosimilmente destinato delle attività produttive e artigianali la cui vocazione ancora si mantiene.
Le
differenze tra la forma della città araba e quella delle città occidentali coincidono con la forma mentis delle due civiltà, radicalmente opposte. La polis è l’urbe non potevano prescindere da una griglia di base la cui regolarità geometrica era ritenuta indispensabile per la loro funzionalità. La forma della città araba, viceversa, poneva come imprescindibile il rispetto del fattore geomorfologico evitando di alterare l’orografia dei luoghi dove si insediava senza piegare la natura alle esigenze di un disegno astratto preventivamente concepito.
Per questo la città araba era
priva di disegno urbano, esso era dettato dal luogo e dalle regole della natura che man mano, senza traumi, aggrega gli edifici senza creare dissesti.
Guardando i tessuti delle città arabe, quello che oggi ci appare caos è semplicemente il
rispetto della geometria della natura. L’urbanistica araba non regolarizzava i luoghi ma ne riproponeva le sinuosità. La città araba, talvolta difficile da leggere, non era affatto "anarchica", era semplicemente inconfrontabile con la concezione dello spazio urbano occidentale: le città sono la forma dei valori delle civiltà che le producono.
Le strutture urbane arabe irregolari erano aggregati compatti ad alta densità antropica, con scarsi elementi architettonici di spicco, non organizzati attorno a luoghi pubblici, bensì a luoghi intimi, quasi privati, frequentati da gruppi di famiglie, spazi quasi tribali. Il
flessuoso spazio urbano arabo non aveva gerarchie ed era quasi sempre suddiviso in settori: quartieri specializzati dove si svolgevano specifiche funzioni, artigianali, commerciali, amministrative, militari.
L’
assenza di uno spazio di relazione collettivo si giustifica con la sovrapposizione assoluta tra lo spazio di relazione laico e quello spirituale. Nella città araba lo spazio del potere temporale e lo spazio del potere spirituale coincidevano. Lo spazio civico di relazione corrispondeva con la Moschea, che assumeva funzione religiosa, didattica e sociale. Nelle grandi città vi era la Madrasa (la scuola) e tutte le città avevano la Hammām (le terme: i bagni per le abluzioni). Per garantire quest’ultima funzione le città erano tutte dotate di un sistema di distribuzione idrica che serviva fontane e lavatoi pubblici ed ogni utenza (tutte le case della Palermo araba avevano acqua corrente, come oggi le nostre).
I tracciati viari erano quelli che ricamano il disegno della città. Irregolari, spezzettati, tortuosi, talvolta in diagonale o curvilinei, a volte ad albero, spesso senza sbocco. Dedali apparentemente confusi, frutto di un rifiuto dell’urbanesimo che comunque aveva una precisa gerarchia viaria codificata:
- le
“Shari’”, strade principali che attraversano l’abitato mettendo in comunicazione le porte della città.
- le
“Adarves”, strade secondarie che suddividevano gli abitati in settori o quartieri. In Sicilia erano chiamati “Darby”;
- le
“Aziqqa’”, un intrico di stretti vicoli, veri e propri corridoi, spesso coperti. Stradelle di penetrazione che raggiungono i cortili e i piccoli spazi pubblici;
- i
“Bahah”, corti o bagli, spazi pubblici chiusi, ciechi, funzionali a pochi nuclei famigliari.
Le misure delle strade erano ergonomiche al transito con animali da basto (cammelli, asini, muli). Il traffico non si svolgeva quasi mai con i carri poiché il rispetto dell’orografia li rendeva incompatibili con strade in forte salita, spesso a gradoni.
Le tipologie edilizie erano poche: edifici religiosi, edifici commerciali, terme, strutture difensive e case di abitazione. Le case erano tutte cellule unifamiliari di dimensioni ridotte, quasi sempre ad un solo piano, con giardino e orto interno. All’esterno non esprimevano particolare architettura. Erano edifici aperti verso l'interno e chiusi all’esterno da semplici muri. Esse costituivano l'elemento generatore del tessuto urbano.
Il sistema di difesa, nei piccoli centri era di natura policertica: le mura della città erano costituite dal corpo stesso del costruito: i muri esterni degli ultimi edifici, quasi sempre ad andamento circolare, fungevano da baluardo. Solo le città reali avevano grandi mura e si distinguevano dalle città borghesi, commerciali ed artigianali, per i loro apparati di difesa: il castello, gli accampamenti militari, le torri, etc.. In esse si imponeva una grande moschea e svettava il minareto.
Tutto questo garantiva una
forte simbiosi sociale.
Curiosità
- Fino a qualche secolo fa, secondo le fonti documentarie, questo quartiere era indicato come “Rabiti”. L’aggiunta della preposizione ha dato origine al toponimo attuale. L’etimologia è da ricercarsi nel lemma saraceno “rabat” che vuol dire sobborgo, o da altri lemmi simili che riconducono al significato di “città fortificata”. Ancora oggi, nel dialetto locale, gli abitanti sono detti “Rabbitisi”.